La depressione rivista in neuroimmagini
GIOVANNA
REZZONI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 20 novembre
2021.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO/DISCUSSIONE]
La depressione: cenni storici e
considerazioni introduttive. Nella
medicina ippocratica[1], basata
su un sistema umorale tetradico costituito da bile,
flegma, bile nera e acqua[2], si
riteneva che la maggior parte delle affezioni umane dipendesse da uno
squilibrio fra questi umori o fluidi, e in un trattato attribuito a Ippocrate (Aff. 36 – VI 426.8ss.) sono elencati 4 tipi di
farmaci purganti per ciascuna categoria umorale di pazienti. La depressione era
detta melancolia perché spiegata sulla base dell’addensarsi della bile
nera, in greco melaina kholē, intorno al
cuore, considerato l’organo sede delle principali facoltà psichiche (fr. 42 W.). Interessante notare che in un altro importante
trattato ippocratico (Epid. III, 14) si
fa menzione dello stato melancolico, to melankholikon,
nel contesto di affezioni epidemiche, e che nella rassegna delle patologie (Mal.
I, 3) la melancolia è caratterizzata come una malattia non mortale di per sé,
in assenza di complicanze[3]. Infine,
i medici ippocratici avevano riconosciuto un disturbo depressivo associato a
somatizzazione gastro-enterica, descrivendolo come melancolia che interessa la
cavità addominale e, oltre che affezione melancolica, lo chiamavano affezione
flatulenta[4].
Questo preambolo storico, oltre a informarci sulle
origini dei termini moderni melancolia e malinconia, per indicare
la depressione, e umore per indicare lo stato affettivo-emotivo, ci
ricorda che questo genere di disturbi ha da sempre afflitto l’umanità e fin
dall’antichità classica è stato considerato un problema medico.
La semeiotica psichiatrica classica specificava tre
significati per il termine depressione: un sintomo, una sindrome
o un’entità nosologica[5]. L’elemento
comune è di natura fenomenica, perché consiste nel vissuto di una caduta del tono
dell’umore o timìa, oggettivabile
attraverso la facies, l’atteggiamento, la comunicazione e il comportamento.
Questo stato della psiche, soggettivamente vissuto come vuoto, senso di
inutilità, mancanza di prospettiva, entusiasmo e interesse, ha un equivalente
nell’aspetto triste della persona, nella sua postura dimessa o accasciata,
nella tendenza alla stasi psicomotoria e a un comportamento lento o
caratterizzato da pause, come quello di una persona stanca, avvilita o
rassegnata. Quando si rilevava solo questo aspetto in una persona affetta da altri
disturbi o in apparente stato di buona salute, tradizionalmente si parlava di “sintomo
depressivo”, sottintendendo la necessità di un’indagine più approfondita se non
fosse scomparso spontaneamente in poco tempo, rivelando la sua natura reattiva.
Nelle sindromi depressive, ossia in costellazioni di sintomi che vanno
dall’insonnia alle palpitazioni, dai disturbi d’ansia somatizzata all’ideazione
catastrofistica, sono presenti due altri sintomi: l’inibizione, che
riguarda la riduzione dell’iniziativa, della gamma di interessi, del campo di
coscienza, dell’atteggiamento attivo ed è avvertita come un peso interiore e un’astenia
psichica; il dolore morale, che si esprime come eccesso di autocritica,
svalutazione di sé stesso, svilimento del valore delle proprie azioni, fino all’auto-accusa
e ai sensi di colpa.
Nella depressione classicamente intesa come entità
nosologica[6],
corrispondente prevalentemente al disturbo depressivo maggiore e alla fase
depressiva del disturbo bipolare, oltre ai tre elementi del basso
tono dell’umore, dell’inibizione e del dolore morale, si registravano tutte le
altre manifestazioni cliniche caratteristiche di questi disturbi, per le quali
si rimanda a trattati e manuali di clinica psichiatrica.
Dalla ricerca sulle basi neurali
della depressione allo studio per immagini del cervello depresso in vivo. Le basi
neurobiologiche dei disturbi depressivi per decenni sono state studiate
prevalentemente in termini genetici e, fatalmente, l’attenzione è ricaduta
sulle molecole proteiche codificate dai geni di rischio per lo sviluppo della depressione
maggiore, di altre forme monopolari più lievi e della fase
depressiva del disturbo bipolare. Non meraviglia perciò che in tanti
consessi scientifici per anni si è discusso di basi molecolari della
depressione, accantonando gli altri aspetti relativi alla fisiopatologia
delle reti e dei sistemi neuronici implicati nell’attività
psichica interessata in maniera rilevante dalla sintomatologia depressiva. La bias
molecolare è stata favorita anche da oltre quarant’anni di ipotesi “serotoninergica
della depressione”, che aveva il suo equivalente nell’ipotesi dopaminergica
della schizofrenia, per ciò che concerne i disturbi psicotici; entrambe le
ipotesi erano “costruzioni ad hoc” derivate, rispettivamente, dall’efficacia degli
inibitori della ricaptazione di 5-HT per la depressione e degli anti-dopaminergici
per la schizofrenia e altri disturbi psicotici.
In un aggiornamento di alcuni anni fa abbiamo presentato
studi su vari correlati anche neuroanatomici macroscopici di recente
accertamento e categoricamente esclusi in passato quale possibile causa di
depressione e più in generale di disturbi mentali[7]. Come più
volte è stato sottolineato dai membri della nostra società scientifica, gli
stessi esiti clinici – in questo caso i disturbi depressivi – possono essere
prodotti da differenti cause o concause eziopatogenetiche. Proprio i differenti
livelli di osservazione molecolare, cellulare, dei sistemi neuronici, delle
reti, dell’anatomia regionale, hanno consentito di riconoscere differenti
possibilità, oltre che valutare per la stessa ipotesi eziopatogenetica le
alterazioni a ciascun livello.
Ormai la specializzazione nelle indagini per ciascun
livello ha costituito delle sotto-branche specializzate della ricerca sulle
basi biologiche della depressione. Ad esempio, lo studio dei recettori, dei
trasportatori e degli enzimi-chiave per la biosintesi della 5-HT e delle
catecolamine, principalmente, ma anche di altri neurotrasmettitori i cui
effetti sono risultati deficitari, costituisce un ambito che da oltre quarant’anni
fornisce dati ed evidenze importanti. All’estremo opposto, lo studio mediante
risonanza magnetica nucleare (RMN o MRI, da magnetic
resonance imaging), che ha rilevato la riduzione
di volume dell’ippocampo e della corteccia nella depressione, costituisce un
ambito specializzato dello studio anatomico, in passato condotto
prevalentemente mediante esame necroscopico. Nel mezzo, lo studio cellulare,
che ha dimostrato la perdita di neuroni e sinapsi quale causa parziale della
perdita di neurotrasmettitori, e lo studio metabolico e funzionale, mediante
PET e fMRI che individua le variazioni nella fisiologia di circuiti e sistemi
neuronici.
Un problema della clinica psichiatrica di oggi, che
si ripropone nel discutere il neuroimaging del cervello dei pazienti
depressi, è l’uso dei risultati di studi e ricerche nella pratica diagnostica e
terapeutica. Non si tratta solo di una difficoltà tecnica, di translational neuroscience,
come si dice oggi, ma anche di un problema di interpretazione da parte degli
psichiatri, consistente nell’errore di cercare una cornice interpretativa
precostituita, unica, fissa e immutabile che risparmi la fatica di pensare e
usare il ragionamento per studiare la specificità di un paziente e trovare
soluzioni di trattamento appropriate ed efficaci per quel caso. Come c’erano
nel passato psichiatri detti in Italia “organicisti-farmacologici” e, all’opposto,
“psicologisti-psicoterapeuti”, che interpretavano la scelta di campo in maniera
rigida ed estrema, quasi fossero dei fanatici di un’ideologia, così oggi vi
sono quelli – e purtroppo non sono pochi – che con la stessa rigidità apodittica
utilizzano il DSM nell’ultima versione come un testo di psicopatologia e
clinica psichiatrica e impiegano schemi terapeutici fissi per ogni casella
della classificazione.
È un grave errore. È sempre un grave errore tradire
l’essenza medica della pratica psichiatrica, anche quando questo affidarsi al
rigore letterale di una prescrizione riguarda immagini di PET e fMRI. Bisogna
ricordare, come ha spiegato tante volte il nostro presidente, che il senso di
quelle immagini non è dato da un’evidenza, perché non si tratta di “indici”,
come nel caso della rilevazione termometrica della temperatura corporea, ma di “icone”,
ossia di rappresentazioni il cui valore si basa su una interpretazione, della
quale è necessario aver sempre presente la ratio.
Il professore Franco Rinaldi, negli anni Ottanta presidente
della Società Italiana di Psichiatria e vice presidente della Società Europea,
soleva dire: “La buona pratica medica non ammette pigrizia mentale, ma consente
qualche automatismo; la buona pratica psichiatrica non consente nemmeno quegli
automatismi, perché ogni paziente non è solo differente dall’altro, ma anche da
sé stesso nel corso del tempo, e le diagnosi nosografiche non sono che il
titolo di una storia che psichiatra e paziente devono scrivere insieme
attraverso un continuo lavoro di conoscenza e cambiamento”.
Dunque, il problema non consiste nell’integrazione della
diagnostica per immagini nella diagnosi di depressione e nei protocolli per il
monitoraggio terapeutico, ma nell’evitare che lo psichiatra, per pigrizia mentale
– o, ahimè, per difetto di formazione – passi dall’uso rigido e schematico dei
segni diacritici della semeiotica tradizionale all’uso altrettanto rigido ed
esclusivo di immagini funzionali del cervello per formulare la diagnosi e
decidere la terapia.
Lo studio mediante neuroimmagini funzionali del
cervello di persone affette da disturbi depressivi ha cercato innanzitutto di identificare
aspetti caratteristici della fisiopatologia del disturbo, in grado di
consentire un immediato riconoscimento “oggettivo” di uno stato depressivo,
distinguendolo dal regime di attività fisiologica; poi ha cercato di definire
correlati distinti da quelli di altri disturbi psichici, e infine ha provato a
individuare elementi associati al tipo di depressione e alla gravità del quadro
clinico.
Nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto con
certezza assoluta, sia per le variazioni individuali, che rendono difficile una
completa caratterizzazione di un endofenotipo cerebrale depressivo
comune, sia per variazioni dovute a differenze fisiopatologiche in quadri neuropatologici
diversi, tutti raccolti clinicamente sotto la diagnosi di depressione per la
comunanza sintomatologica[8].
Consideriamo ora gli elementi principali emersi dall’approccio
mediante neuroimmagine.
Helen Mayberg, neurologa e
non psichiatra, ora alla Emory University, studiando in vivo l’attività
funzionale dell’encefalo mediante fMRI (functional
magnetic resonance imaging)
ha identificato vari nodi nel “circuito della depressione”, due dei quali sono
particolarmente critici: 1) l’area 25, secondo la mappa dei campi citoarchitettonici di Brodmann, corrispondente alla corteccia
cingolata subcallosa, 2) la parte anteriore dell’insula
di destra.
L’area 25 si ritiene che sia sede di
elaborazioni comuni al pensiero, al controllo motorio e alla conazione,
ed è ricca di neuroni con un’alta densità di trasportatori della serotonina (5-HTT).
L’importanza del collegamento è comprensibile sulla base della teoria serotoninergica
della depressione; meno comprensibile se si tiene conto del fatto che nella
depressione sono stati riconosciuti da tempo deficit di varie monoammine e
altri neurotrasmettitori. Tra i mediatori più studiati, dopamina e noradrenalina
negli uomini depressi fanno registrare un difetto più rilevante che nelle donne
e, in molti casi, più incidente del deficit serotoninico,
al punto che molti psichiatri agli uomini depressi prescrivono i vecchi
antidepressivi triciclici (imipramina, amitriptilina) che ostacolano la
ricaptazione anche di dopamina e noradrenalina, anziché prescrivere gli inibitori
selettivi della ricaptazione della 5-HT o SSRI, quali fluoxetina, fenoxetina, paroxetina, fluvoxamina,
citalopram, zimelidina, fenfluramina, mazindolo, ecc.
Il secondo nodo del circuito depressivo – cioè la parte
anteriore dell’insula di destra – è stato messo in rapporto in
numerosi studi con l’autocoscienza, o consapevolezza di sé, e con l’elaborazione
dell’esperienza sociale. L’insula anteriore si connette con l’ipotalamo,
implicato nella regolazione del sonno, della libido, della fame e della sete,
ha importanti connessioni con l’amigdala, studiata soprattutto in rapporto
alla paura e ad altre emozioni ma implicata in una vasta gamma di attività
psichiche inclusi compiti cognitivi, e con la corteccia prefrontale,
sede prioritaria di tutti i maggiori processi di astrazione, inclusa la pianificazione
delle azioni future.
L’interpretazione fisiologica corrente secondo il
criterio classico della localizzazione funzionale, vuole che la parte
anteriore dell’insula di destra riceva informazioni dai sensi (endopercezione)
circa lo stato fisiologico del corpo e, in risposta, generi emozioni che influenzano
le nostre azioni e decisioni.
Un’altra struttura che appare implicata sia nel disturbo
depressivo maggiore sia nel disturbo bipolare è la corteccia
anteriore del giro del cingolo.
Come è noto, la corteccia anteriore del giro del
cingolo è funzionalmente suddivisa in due regioni: 1) la rostrale e
ventrale che, per le sue connessioni, si ritiene implicata nell’elaborazione di
funzioni emozionali e autonome (vegetative); 2) la caudale, che appare
implicata in processi cognitivi e nel controllo del comportamento.
Entrambe le regioni presentano una funzione alterata
nelle persone che soffrono di disturbi dell’umore, ma l’alterazione più
costante riguarda la rostrale, associata alle emozioni, che è iperattiva
nei pazienti affetti da disturbo depressivo maggiore e nella fase
depressiva del disturbo bipolare. L’importanza di questa iperfunzione nella neuropatologia
depressiva si ritiene sia confermata dalla sua riduzione, particolarmente
evidente nella parte sub-genicolata della corteccia cingolata anteriore, a
seguito di una positiva risposta al trattamento antidepressivo.
Accanto all’evidenza di iperfunzione di alcune aree,
come la 25 della corteccia, le immagini studiate dal team di Helen Mayberg hanno mostrato nei pazienti depressi un’ipoattività
in altri territori corticali.
La corteccia prefrontale, come sappiamo, ha
un ruolo importante nella concentrazione, nel processo decisionale, nella
formulazione di giudizi e nella pianificazione delle nostre azioni future. Le
connessioni che sembrano essere alla base dei circuiti responsabili di queste
nostre attività psichiche includono fibre dirette dalla corteccia prefrontale
all’amigdala, all’ippocampo, all’ipotalamo e all’insula
di Reil; ciascuna di queste formazioni cerebrali
invia a sua volta assoni di proiezione all’area 25 della corteccia prefrontale.
L’integrazione delle informazioni nella rete funzionale, virtualmente prodotta
dalle reciprocità, crea normalmente una sintesi dei modi di elaborazione
emotiva, affettiva e viscerale tipici di amigdala, ipotalamo e insula, con i
processi tracciati nella working memory e con
le memorie più stabili della corteccia prefrontale.
In corso di depressione sembra verificarsi una
rottura dell’equilibrio ottimale della rete, per effetto di squilibri
quantitativi di attività di alcune sue parti. L’interpretazione fisiologica
corrente vuole che dal perfetto equilibrio funzionale di queste connessioni
dipenda la nostra capacità di sintesi tra priorità affettivo-emotive e priorità
razionali; le prime legate principalmente alla conservazione dell’equilibrio omeostatico,
le seconde ai valori acquisiti attraverso l’educazione e la cultura.
Lo studio per immagini strutturali dell’encefalo,
ossia mediante la metodica classica della risonanza magnetica nucleare (RMN o MRI),
ha rivelato varie altre peculiarità nelle persone affette da depressione,
generalmente interpretate come “cambiamenti” causati dal disturbo psichico.
Primo fra tutti il rilievo di un aumento di volume del complesso
nucleare dell’amigdala, al quale sono stati dedicati molti studi, che noi
abbiamo recensito e commentato in questi anni.
A questa amigdala più grande – peraltro
rilevata anche in associazione a disturbi da stress cronico e a disturbi
d’ansia – negli studi funzionali (fMRI) fa riscontro una maggiore attività
dell’amigdala nei pazienti affetti da depressione unipolare e fase depressiva
del disturbo bipolare.
L’interpretazione più comune di questo reperto vuole
che la crescita neuronica e sinaptica dell’amigdala costituisca la base
principale dello stato di tristezza, dolore interiore, angoscia, scoraggiamento
e perfino disperazione dell’esperienza soggettiva del paziente depresso.
Un’altra evidenza rilevante riguarda lo studio delle
connessioni dei neuroni dell’ippocampo che, come è noto a chi segue i
nostri aggiornamenti e le nostre recensioni, presenta una riduzione di volume nei
depressi, per la prima volta documentata nel disturbo post-traumatico da
stress (PTSD) con sintomi depressivi, da Douglas Bremner
e colleghi, e presentata in Italia con tutti gli altri studi al riguardo nel
2005 dal nostro presidente[9]. Vari
studi hanno documentato la riduzione di dimensione dell’ippocampo nei pazienti
che soffrono di episodi depressivi di durata protratta nel tempo e,
generalmente, a questa perdita di neuroni ippocampali si attribuiscono i
disturbi di memoria riferiti dai pazienti depressi. L’indagine funzionale ha
documentato una significativa riduzione del numero delle giunzioni
sinaptiche dei neuroni dell’ippocampo e una rilevante diminuzione della
grandezza media delle sinapsi.
Questa evidenza è stata a torto banalizzata da
alcuni ricercatori, in base all’osservazione che una perdita di sinapsi
ippocampali è stata riscontrata in molti altri disturbi. A nostro avviso non si
tratta di un rilievo aspecifico, in base a due considerazioni: 1) se si escludono
le perdite strutturali da malattie neurodegenerative e neurologiche in
particolare, il reperto si restringe alla casistica dei gravi disturbi da stress
e ansia; 2) in tali condizioni, oltre i due terzi dei pazienti ad un esame
clinico accurato rivela sintomi depressivi.
Dunque, come è noto da indagini sperimentali
precliniche, lo stato di sofferenza causato da un’iperfunzione dei sistemi
neuronici dello stress che esita in depressione, e il protrarsi di
questo stato di alterato funzionamento cerebrale, si accompagna a perdita di
sinapsi dell’ippocampo, la formazione cerebrale più vulnerabile a questo genere
di danno.
Infine, le immagini funzionali rivelano difetto di
attività nell’ipotalamo, la struttura al centro del controllo delle funzioni
vegetative e del rapporto diretto fra sistema nervoso e sistema endocrino, e
nella corteccia dell’insula (di Reil)
implicata in vari studi nell’elaborazione e nell’interpretazione delle
sensazioni corporee. L’ipoattività dell’ipotalamo viene associata con la riduzione
di desiderio sessuale e alimentare, mentre la riduzione nell’insula si ritiene
possa essere all’origine della diminuzione di vitalità, fisicità e coscienza del
proprio corpo, favorendo l’interpretazione ipocondriaca dei segnali provenienti
dalla periferia viscerale, che entrano nella consapevolezza proprio per l’abbassamento
della soglia corticale – e, secondo gli autori degli studi di neuroimmagine,
della corteccia dell’insula in particolare.
Gli studi sulla depressione seguiti a quelli del
gruppo di Helen Mayberg hanno proposto
interpretazioni dei correlati di immagine compatibili con le ipotesi patogenetiche
della depressione da stress. Quando l’area 25 diventa iperattiva, i
costituenti del circuito neuronico che fornisce l’informazione affettiva ed emotiva
sono letteralmente disconnessi dai sistemi neuronici prevalentemente implicati
nell’elaborazione cognitiva cosciente: questa disconnessione sarebbe all’origine
della riduzione del senso di identità riferita da molti pazienti depressi. Lo
squilibrio funzionale che compromette i normali scambi di informazione tra
sistemi neuronici cerebrali spiegherebbe anche le sensazioni corporee non
localizzabili e che il paziente a volte avverte come indipendenti dal proprio
controllo cosciente o addirittura estranee.
Un recente numero monografico di Frontiers
in Psychiatry dedicato ai disturbi dell’umore propone otto nuovi studi sul
tema: Neuroimaging Biomarkers in Mood and Anxiety Disorders. Chien-Han
Lai, Yong Ku Kim e Joaquim Rada, prevenienti i primi due da istituti universitari
di Taipei e Seoul, e Rada dal Karolinska Institute di Stoccolma, hanno
introdotto questo importante sforzo volto a stabilire elementi diacritici
affidabili con un mezzo non invasivo per i pazienti[10].
Gli studi sono stati condotti con le metodiche della
magnetoencefalografia (MEG), della risonanza magnetica strutturale e funzionale
(MRI, fMRI), della stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (r-TMS) e uno
soltanto mediante terapia elettroconvulsiva (ECT)[11].
Uno di questi studi (Ballard et al.) richiama
l’attenzione sulle alterazioni della connettività dell’amigdala e dell’insula,
suggerendo un ruolo nell’associazione suicidaria implicita; cioè
sarebbero associate, e quindi candidate quali biomarker, a processi non
coscienti (impliciti) che spingerebbero al suicidio. La stima di connettività
tra la corteccia visiva primaria, l’insula anteriore e l’amigdala potrebbe
individuare pazienti soggetti a crisi suicidarie, e consentire di prevenirle.
Un altro studio, condotto da Zhou e colleghi, ha
segnalato un possibile contrassegno diagnostico in fluttuazioni elettriche
di bassa frequenza associate ai sintomi depressivi del disturbo bipolare II.
Zhang e colleghi hanno realizzato un lavoro
particolarmente interessante, perché condotto solo su pazienti al primo episodio
di disturbo depressivo maggiore (MDD) che non avevano mai assunto farmaci, rilevando
come possibile contrassegno diagnostico la riduzione volumetrica della
materia grigia nelle regioni fronto-limbico-striatali,
inclusa la corteccia prefrontale, il sistema limbico, lo striato, il
cervelletto, il lobo temporale e il giro della lingula bilateralmente.
Le proposte di biomarker degli altri studi
della raccolta monografica sono meno convincenti. In ogni caso, tutti i
contrassegni individuati richiedono conferme su grandi numeri e, considerati i
problemi di variabilità individuale cui ho fatto riferimento in precedenza,
dovranno essere introdotti con prudenza nella pratica diagnostica e inclusi in
un quadro generale di valutazione centrato sul rapporto col paziente, e non
utilizzati come un biomarker tumorale o un indice ematochimico di
malattia, rischiando di attribuire loro un valore assoluto che fino ad oggi non
è stato ancora provato.
L’autrice della nota ringrazia per la collaborazione i professori Giuseppe Perrella, Giovanni
Rossi, Ludovica R. Poggi e Diane Richmond, e invita alla lettura di recensioni e altri scritti di argomento connesso (oltre un centinaio) che appaiono nella sezione “NOTE
E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna Rezzoni
BM&L-20 novembre
2021
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presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1] A Ippocrate di Coo (Kos), vissuto
tra il 460 e il 370 a.C., si attribuiscono una sessantina di opere, verosimilmente
redatte in gran parte da membri della sua celebre scuola, costituenti il nucleo
del Corpus Hippocraticum o Collezione
ippocratica, che oggi include oltre settanta manoscritti. Le denominazioni
abbreviate dei manoscritti sono quelle seguite da Vincenzo Di Benedetto (v.
dopo) e adottate dagli specialisti.
[2] In altri manoscritti (Nat. hom.) si parla
di sangue, flegma, bile gialla, bile nera.
[3] Vincenzo Di Benedetto, Il
medico e la malattia, p. 59, Einaudi, Torino 1986.
[4] Vincenzo Di Benedetto, op. cit., p. 51. Il frammento è di Diocle di Caristo (circa 360 a.C.).
[5] Henri Ey, P. Bernard e Ch. Brisset, Manuale di Psichiatria, p. 262, Masson
Italia Editori, Milano 1983.
[6] In passato esistevano varie
classificazioni cliniche parallele, che riflettevano criteri e prospettive
interpretative differenti. In alcune scuole di psichiatria italiane si chiedeva
agli psichiatri di inquadrare un paziente depresso secondo i criteri di almeno
tre di queste classificazioni cliniche. L’uso della Scala di Hamilton
per la valutazione diagnostica della depressione era limitato solo agli usi di
comunicazione scientifica, non trovando il suo esito riscontro diretto nelle
strategie terapeutiche da adottare. Tra le distinzioni classiche vi era quella
tra depressione endogena (o depressione maggiore) e depressione reattiva
(o depressione minore), tra depressione nevrotica e depressione
psicotica, tra depressione lieve (spontaneamente reversibile), depressione
di media entità (perdurante, che regredisce se trattata) e depressione
grave, che costituiva un’espressione ambigua perché riferita tanto alla gravità
della depressione psicotica delirante quanto allo stato di grave apatia negativista resistente al trattamento di pazienti depressi
non psicotici.
[7] Si fa riferimento all’occipital bending o curvatura della scissura
interemisferica al livello dei lobi occipitali, a causa di un lobo più grande
che in alcuni casi avvolge quasi il lobo più piccolo; in massima parte presente
nelle donne, l’anomalia è associata allo sviluppo di depressione. Si raccomanda
la lettura dell’aggiornamento di Giovanni Rossi dal titolo “Scoperte e
aggiornamenti sulle basi neurali della depressione” (Note e Notizie 11-04-15
Scoperte e aggiornamenti sulle basi neurali della depressione) nel quale,
oltre a una trattazione esaustiva dell’occipital
bending, si presentano nozioni e nuove acquisizioni della ricerca sulla
depressione attualissime e ancora ignorate dalla maggior parte degli psichiatri.
Inoltre, si discute anche la base biologica del pessimismo depressivo
individuata di recente.
[8] Tristezza vitale, basso tono dell’umore, deficit di espressione di
affetti espansivi, anedonia, rallentamento ideo-motorio, ideazione pessimistica,
mancanza di iniziativa, inibizione, ecc.
[9] Cfr. Giuseppe Perrella, Il
disturbo post-traumatico da stress (PTSD), Dipartimento di Neuroscienze
dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli 2005.
[10] Chien-Han Lai, Yong Ku Kim &
Joaquim Rada, Neuroimaging Biomarkers in Mood and Anxiety Disorders. Frontiers in Psychiatry – Epub ahead of print doi:
10.3389/fpsyt.2021.773034, 2021.
[11] Di questo studio non abbiamo
tenuto conto, perché la ECT non ha basi scientifiche e il razionale del suo
impiego è empirico e originato dalla pratica antiscientifica dell’elettroshock:
la nostra società scientifica, così come tante altre scuole di neuroscienze e
psichiatria, contesta il principio di causare un danno (sia pure limitato) per
ottenere un effetto positivo incerto con un meccanismo ignoto. Su questo
principio si basavano le barbare prescrizioni ai pazienti psichiatrici di coma
insulinico ed elettroshock del secolo scorso. Si legge che il neuroscienziato
Steven Rose già negli anni Settanta condannava e denunciava queste pratiche improponibili
nell’epoca della medicina scientifica.