La depressione rivista in neuroimmagini

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 20 novembre 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO/DISCUSSIONE]

 

La depressione: cenni storici e considerazioni introduttive. Nella medicina ippocratica[1], basata su un sistema umorale tetradico costituito da bile, flegma, bile nera e acqua[2], si riteneva che la maggior parte delle affezioni umane dipendesse da uno squilibrio fra questi umori o fluidi, e in un trattato attribuito a Ippocrate (Aff. 36 – VI 426.8ss.) sono elencati 4 tipi di farmaci purganti per ciascuna categoria umorale di pazienti. La depressione era detta melancolia perché spiegata sulla base dell’addensarsi della bile nera, in greco melaina kholē, intorno al cuore, considerato l’organo sede delle principali facoltà psichiche (fr. 42 W.). Interessante notare che in un altro importante trattato ippocratico (Epid. III, 14) si fa menzione dello stato melancolico, to melankholikon, nel contesto di affezioni epidemiche, e che nella rassegna delle patologie (Mal. I, 3) la melancolia è caratterizzata come una malattia non mortale di per sé, in assenza di complicanze[3]. Infine, i medici ippocratici avevano riconosciuto un disturbo depressivo associato a somatizzazione gastro-enterica, descrivendolo come melancolia che interessa la cavità addominale e, oltre che affezione melancolica, lo chiamavano affezione flatulenta[4].

Questo preambolo storico, oltre a informarci sulle origini dei termini moderni melancolia e malinconia, per indicare la depressione, e umore per indicare lo stato affettivo-emotivo, ci ricorda che questo genere di disturbi ha da sempre afflitto l’umanità e fin dall’antichità classica è stato considerato un problema medico.

La semeiotica psichiatrica classica specificava tre significati per il termine depressione: un sintomo, una sindrome o un’entità nosologica[5]. L’elemento comune è di natura fenomenica, perché consiste nel vissuto di una caduta del tono dell’umore o timìa, oggettivabile attraverso la facies, l’atteggiamento, la comunicazione e il comportamento. Questo stato della psiche, soggettivamente vissuto come vuoto, senso di inutilità, mancanza di prospettiva, entusiasmo e interesse, ha un equivalente nell’aspetto triste della persona, nella sua postura dimessa o accasciata, nella tendenza alla stasi psicomotoria e a un comportamento lento o caratterizzato da pause, come quello di una persona stanca, avvilita o rassegnata. Quando si rilevava solo questo aspetto in una persona affetta da altri disturbi o in apparente stato di buona salute, tradizionalmente si parlava di “sintomo depressivo”, sottintendendo la necessità di un’indagine più approfondita se non fosse scomparso spontaneamente in poco tempo, rivelando la sua natura reattiva. Nelle sindromi depressive, ossia in costellazioni di sintomi che vanno dall’insonnia alle palpitazioni, dai disturbi d’ansia somatizzata all’ideazione catastrofistica, sono presenti due altri sintomi: l’inibizione, che riguarda la riduzione dell’iniziativa, della gamma di interessi, del campo di coscienza, dell’atteggiamento attivo ed è avvertita come un peso interiore e un’astenia psichica; il dolore morale, che si esprime come eccesso di autocritica, svalutazione di sé stesso, svilimento del valore delle proprie azioni, fino all’auto-accusa e ai sensi di colpa.

Nella depressione classicamente intesa come entità nosologica[6], corrispondente prevalentemente al disturbo depressivo maggiore e alla fase depressiva del disturbo bipolare, oltre ai tre elementi del basso tono dell’umore, dell’inibizione e del dolore morale, si registravano tutte le altre manifestazioni cliniche caratteristiche di questi disturbi, per le quali si rimanda a trattati e manuali di clinica psichiatrica.

 

Dalla ricerca sulle basi neurali della depressione allo studio per immagini del cervello depresso in vivo. Le basi neurobiologiche dei disturbi depressivi per decenni sono state studiate prevalentemente in termini genetici e, fatalmente, l’attenzione è ricaduta sulle molecole proteiche codificate dai geni di rischio per lo sviluppo della depressione maggiore, di altre forme monopolari più lievi e della fase depressiva del disturbo bipolare. Non meraviglia perciò che in tanti consessi scientifici per anni si è discusso di basi molecolari della depressione, accantonando gli altri aspetti relativi alla fisiopatologia delle reti e dei sistemi neuronici implicati nell’attività psichica interessata in maniera rilevante dalla sintomatologia depressiva. La bias molecolare è stata favorita anche da oltre quarant’anni di ipotesi “serotoninergica della depressione”, che aveva il suo equivalente nell’ipotesi dopaminergica della schizofrenia, per ciò che concerne i disturbi psicotici; entrambe le ipotesi erano “costruzioni ad hoc” derivate, rispettivamente, dall’efficacia degli inibitori della ricaptazione di 5-HT per la depressione e degli anti-dopaminergici per la schizofrenia e altri disturbi psicotici.

In un aggiornamento di alcuni anni fa abbiamo presentato studi su vari correlati anche neuroanatomici macroscopici di recente accertamento e categoricamente esclusi in passato quale possibile causa di depressione e più in generale di disturbi mentali[7]. Come più volte è stato sottolineato dai membri della nostra società scientifica, gli stessi esiti clinici – in questo caso i disturbi depressivi – possono essere prodotti da differenti cause o concause eziopatogenetiche. Proprio i differenti livelli di osservazione molecolare, cellulare, dei sistemi neuronici, delle reti, dell’anatomia regionale, hanno consentito di riconoscere differenti possibilità, oltre che valutare per la stessa ipotesi eziopatogenetica le alterazioni a ciascun livello.

Ormai la specializzazione nelle indagini per ciascun livello ha costituito delle sotto-branche specializzate della ricerca sulle basi biologiche della depressione. Ad esempio, lo studio dei recettori, dei trasportatori e degli enzimi-chiave per la biosintesi della 5-HT e delle catecolamine, principalmente, ma anche di altri neurotrasmettitori i cui effetti sono risultati deficitari, costituisce un ambito che da oltre quarant’anni fornisce dati ed evidenze importanti. All’estremo opposto, lo studio mediante risonanza magnetica nucleare (RMN o MRI, da magnetic resonance imaging), che ha rilevato la riduzione di volume dell’ippocampo e della corteccia nella depressione, costituisce un ambito specializzato dello studio anatomico, in passato condotto prevalentemente mediante esame necroscopico. Nel mezzo, lo studio cellulare, che ha dimostrato la perdita di neuroni e sinapsi quale causa parziale della perdita di neurotrasmettitori, e lo studio metabolico e funzionale, mediante PET e fMRI che individua le variazioni nella fisiologia di circuiti e sistemi neuronici.

Un problema della clinica psichiatrica di oggi, che si ripropone nel discutere il neuroimaging del cervello dei pazienti depressi, è l’uso dei risultati di studi e ricerche nella pratica diagnostica e terapeutica. Non si tratta solo di una difficoltà tecnica, di translational neuroscience, come si dice oggi, ma anche di un problema di interpretazione da parte degli psichiatri, consistente nell’errore di cercare una cornice interpretativa precostituita, unica, fissa e immutabile che risparmi la fatica di pensare e usare il ragionamento per studiare la specificità di un paziente e trovare soluzioni di trattamento appropriate ed efficaci per quel caso. Come c’erano nel passato psichiatri detti in Italia “organicisti-farmacologici” e, all’opposto, “psicologisti-psicoterapeuti”, che interpretavano la scelta di campo in maniera rigida ed estrema, quasi fossero dei fanatici di un’ideologia, così oggi vi sono quelli – e purtroppo non sono pochi – che con la stessa rigidità apodittica utilizzano il DSM nell’ultima versione come un testo di psicopatologia e clinica psichiatrica e impiegano schemi terapeutici fissi per ogni casella della classificazione.

È un grave errore. È sempre un grave errore tradire l’essenza medica della pratica psichiatrica, anche quando questo affidarsi al rigore letterale di una prescrizione riguarda immagini di PET e fMRI. Bisogna ricordare, come ha spiegato tante volte il nostro presidente, che il senso di quelle immagini non è dato da un’evidenza, perché non si tratta di “indici”, come nel caso della rilevazione termometrica della temperatura corporea, ma di “icone”, ossia di rappresentazioni il cui valore si basa su una interpretazione, della quale è necessario aver sempre presente la ratio.

Il professore Franco Rinaldi, negli anni Ottanta presidente della Società Italiana di Psichiatria e vice presidente della Società Europea, soleva dire: “La buona pratica medica non ammette pigrizia mentale, ma consente qualche automatismo; la buona pratica psichiatrica non consente nemmeno quegli automatismi, perché ogni paziente non è solo differente dall’altro, ma anche da sé stesso nel corso del tempo, e le diagnosi nosografiche non sono che il titolo di una storia che psichiatra e paziente devono scrivere insieme attraverso un continuo lavoro di conoscenza e cambiamento”.

Dunque, il problema non consiste nell’integrazione della diagnostica per immagini nella diagnosi di depressione e nei protocolli per il monitoraggio terapeutico, ma nell’evitare che lo psichiatra, per pigrizia mentale – o, ahimè, per difetto di formazione – passi dall’uso rigido e schematico dei segni diacritici della semeiotica tradizionale all’uso altrettanto rigido ed esclusivo di immagini funzionali del cervello per formulare la diagnosi e decidere la terapia.

Lo studio mediante neuroimmagini funzionali del cervello di persone affette da disturbi depressivi ha cercato innanzitutto di identificare aspetti caratteristici della fisiopatologia del disturbo, in grado di consentire un immediato riconoscimento “oggettivo” di uno stato depressivo, distinguendolo dal regime di attività fisiologica; poi ha cercato di definire correlati distinti da quelli di altri disturbi psichici, e infine ha provato a individuare elementi associati al tipo di depressione e alla gravità del quadro clinico.

Nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto con certezza assoluta, sia per le variazioni individuali, che rendono difficile una completa caratterizzazione di un endofenotipo cerebrale depressivo comune, sia per variazioni dovute a differenze fisiopatologiche in quadri neuropatologici diversi, tutti raccolti clinicamente sotto la diagnosi di depressione per la comunanza sintomatologica[8].

Consideriamo ora gli elementi principali emersi dall’approccio mediante neuroimmagine.

Helen Mayberg, neurologa e non psichiatra, ora alla Emory University, studiando in vivo l’attività funzionale dell’encefalo mediante fMRI (functional magnetic resonance imaging) ha identificato vari nodi nel “circuito della depressione”, due dei quali sono particolarmente critici: 1) l’area 25, secondo la mappa dei campi citoarchitettonici di Brodmann, corrispondente alla corteccia cingolata subcallosa, 2) la parte anteriore dell’insula di destra.

L’area 25 si ritiene che sia sede di elaborazioni comuni al pensiero, al controllo motorio e alla conazione, ed è ricca di neuroni con un’alta densità di trasportatori della serotonina (5-HTT). L’importanza del collegamento è comprensibile sulla base della teoria serotoninergica della depressione; meno comprensibile se si tiene conto del fatto che nella depressione sono stati riconosciuti da tempo deficit di varie monoammine e altri neurotrasmettitori. Tra i mediatori più studiati, dopamina e noradrenalina negli uomini depressi fanno registrare un difetto più rilevante che nelle donne e, in molti casi, più incidente del deficit serotoninico, al punto che molti psichiatri agli uomini depressi prescrivono i vecchi antidepressivi triciclici (imipramina, amitriptilina) che ostacolano la ricaptazione anche di dopamina e noradrenalina, anziché prescrivere gli inibitori selettivi della ricaptazione della 5-HT o SSRI, quali fluoxetina, fenoxetina, paroxetina, fluvoxamina, citalopram, zimelidina, fenfluramina, mazindolo, ecc.

Il secondo nodo del circuito depressivo – cioè la parte anteriore dell’insula di destra – è stato messo in rapporto in numerosi studi con l’autocoscienza, o consapevolezza di sé, e con l’elaborazione dell’esperienza sociale. L’insula anteriore si connette con l’ipotalamo, implicato nella regolazione del sonno, della libido, della fame e della sete, ha importanti connessioni con l’amigdala, studiata soprattutto in rapporto alla paura e ad altre emozioni ma implicata in una vasta gamma di attività psichiche inclusi compiti cognitivi, e con la corteccia prefrontale, sede prioritaria di tutti i maggiori processi di astrazione, inclusa la pianificazione delle azioni future.

L’interpretazione fisiologica corrente secondo il criterio classico della localizzazione funzionale, vuole che la parte anteriore dell’insula di destra riceva informazioni dai sensi (endopercezione) circa lo stato fisiologico del corpo e, in risposta, generi emozioni che influenzano le nostre azioni e decisioni.

Un’altra struttura che appare implicata sia nel disturbo depressivo maggiore sia nel disturbo bipolare è la corteccia anteriore del giro del cingolo.

Come è noto, la corteccia anteriore del giro del cingolo è funzionalmente suddivisa in due regioni: 1) la rostrale e ventrale che, per le sue connessioni, si ritiene implicata nell’elaborazione di funzioni emozionali e autonome (vegetative); 2) la caudale, che appare implicata in processi cognitivi e nel controllo del comportamento.

Entrambe le regioni presentano una funzione alterata nelle persone che soffrono di disturbi dell’umore, ma l’alterazione più costante riguarda la rostrale, associata alle emozioni, che è iperattiva nei pazienti affetti da disturbo depressivo maggiore e nella fase depressiva del disturbo bipolare. L’importanza di questa iperfunzione nella neuropatologia depressiva si ritiene sia confermata dalla sua riduzione, particolarmente evidente nella parte sub-genicolata della corteccia cingolata anteriore, a seguito di una positiva risposta al trattamento antidepressivo.

Accanto all’evidenza di iperfunzione di alcune aree, come la 25 della corteccia, le immagini studiate dal team di Helen Mayberg hanno mostrato nei pazienti depressi un’ipoattività in altri territori corticali.

La corteccia prefrontale, come sappiamo, ha un ruolo importante nella concentrazione, nel processo decisionale, nella formulazione di giudizi e nella pianificazione delle nostre azioni future. Le connessioni che sembrano essere alla base dei circuiti responsabili di queste nostre attività psichiche includono fibre dirette dalla corteccia prefrontale all’amigdala, all’ippocampo, all’ipotalamo e all’insula di Reil; ciascuna di queste formazioni cerebrali invia a sua volta assoni di proiezione all’area 25 della corteccia prefrontale. L’integrazione delle informazioni nella rete funzionale, virtualmente prodotta dalle reciprocità, crea normalmente una sintesi dei modi di elaborazione emotiva, affettiva e viscerale tipici di amigdala, ipotalamo e insula, con i processi tracciati nella working memory e con le memorie più stabili della corteccia prefrontale.

In corso di depressione sembra verificarsi una rottura dell’equilibrio ottimale della rete, per effetto di squilibri quantitativi di attività di alcune sue parti. L’interpretazione fisiologica corrente vuole che dal perfetto equilibrio funzionale di queste connessioni dipenda la nostra capacità di sintesi tra priorità affettivo-emotive e priorità razionali; le prime legate principalmente alla conservazione dell’equilibrio omeostatico, le seconde ai valori acquisiti attraverso l’educazione e la cultura.

Lo studio per immagini strutturali dell’encefalo, ossia mediante la metodica classica della risonanza magnetica nucleare (RMN o MRI), ha rivelato varie altre peculiarità nelle persone affette da depressione, generalmente interpretate come “cambiamenti” causati dal disturbo psichico. Primo fra tutti il rilievo di un aumento di volume del complesso nucleare dell’amigdala, al quale sono stati dedicati molti studi, che noi abbiamo recensito e commentato in questi anni.

A questa amigdala più grande – peraltro rilevata anche in associazione a disturbi da stress cronico e a disturbi d’ansia – negli studi funzionali (fMRI) fa riscontro una maggiore attività dell’amigdala nei pazienti affetti da depressione unipolare e fase depressiva del disturbo bipolare.

L’interpretazione più comune di questo reperto vuole che la crescita neuronica e sinaptica dell’amigdala costituisca la base principale dello stato di tristezza, dolore interiore, angoscia, scoraggiamento e perfino disperazione dell’esperienza soggettiva del paziente depresso.

Un’altra evidenza rilevante riguarda lo studio delle connessioni dei neuroni dell’ippocampo che, come è noto a chi segue i nostri aggiornamenti e le nostre recensioni, presenta una riduzione di volume nei depressi, per la prima volta documentata nel disturbo post-traumatico da stress (PTSD) con sintomi depressivi, da Douglas Bremner e colleghi, e presentata in Italia con tutti gli altri studi al riguardo nel 2005 dal nostro presidente[9]. Vari studi hanno documentato la riduzione di dimensione dell’ippocampo nei pazienti che soffrono di episodi depressivi di durata protratta nel tempo e, generalmente, a questa perdita di neuroni ippocampali si attribuiscono i disturbi di memoria riferiti dai pazienti depressi. L’indagine funzionale ha documentato una significativa riduzione del numero delle giunzioni sinaptiche dei neuroni dell’ippocampo e una rilevante diminuzione della grandezza media delle sinapsi.

Questa evidenza è stata a torto banalizzata da alcuni ricercatori, in base all’osservazione che una perdita di sinapsi ippocampali è stata riscontrata in molti altri disturbi. A nostro avviso non si tratta di un rilievo aspecifico, in base a due considerazioni: 1) se si escludono le perdite strutturali da malattie neurodegenerative e neurologiche in particolare, il reperto si restringe alla casistica dei gravi disturbi da stress e ansia; 2) in tali condizioni, oltre i due terzi dei pazienti ad un esame clinico accurato rivela sintomi depressivi.

Dunque, come è noto da indagini sperimentali precliniche, lo stato di sofferenza causato da un’iperfunzione dei sistemi neuronici dello stress che esita in depressione, e il protrarsi di questo stato di alterato funzionamento cerebrale, si accompagna a perdita di sinapsi dell’ippocampo, la formazione cerebrale più vulnerabile a questo genere di danno.

Infine, le immagini funzionali rivelano difetto di attività nell’ipotalamo, la struttura al centro del controllo delle funzioni vegetative e del rapporto diretto fra sistema nervoso e sistema endocrino, e nella corteccia dell’insula (di Reil) implicata in vari studi nell’elaborazione e nell’interpretazione delle sensazioni corporee. L’ipoattività dell’ipotalamo viene associata con la riduzione di desiderio sessuale e alimentare, mentre la riduzione nell’insula si ritiene possa essere all’origine della diminuzione di vitalità, fisicità e coscienza del proprio corpo, favorendo l’interpretazione ipocondriaca dei segnali provenienti dalla periferia viscerale, che entrano nella consapevolezza proprio per l’abbassamento della soglia corticale – e, secondo gli autori degli studi di neuroimmagine, della corteccia dell’insula in particolare.

Gli studi sulla depressione seguiti a quelli del gruppo di Helen Mayberg hanno proposto interpretazioni dei correlati di immagine compatibili con le ipotesi patogenetiche della depressione da stress. Quando l’area 25 diventa iperattiva, i costituenti del circuito neuronico che fornisce l’informazione affettiva ed emotiva sono letteralmente disconnessi dai sistemi neuronici prevalentemente implicati nell’elaborazione cognitiva cosciente: questa disconnessione sarebbe all’origine della riduzione del senso di identità riferita da molti pazienti depressi. Lo squilibrio funzionale che compromette i normali scambi di informazione tra sistemi neuronici cerebrali spiegherebbe anche le sensazioni corporee non localizzabili e che il paziente a volte avverte come indipendenti dal proprio controllo cosciente o addirittura estranee.

Un recente numero monografico di Frontiers in Psychiatry dedicato ai disturbi dell’umore propone otto nuovi studi sul tema: Neuroimaging Biomarkers in Mood and Anxiety Disorders. Chien-Han Lai, Yong Ku Kim e Joaquim Rada, prevenienti i primi due da istituti universitari di Taipei e Seoul, e Rada dal Karolinska Institute di Stoccolma, hanno introdotto questo importante sforzo volto a stabilire elementi diacritici affidabili con un mezzo non invasivo per i pazienti[10].

Gli studi sono stati condotti con le metodiche della magnetoencefalografia (MEG), della risonanza magnetica strutturale e funzionale (MRI, fMRI), della stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (r-TMS) e uno soltanto mediante terapia elettroconvulsiva (ECT)[11].

Uno di questi studi (Ballard et al.) richiama l’attenzione sulle alterazioni della connettività dell’amigdala e dell’insula, suggerendo un ruolo nell’associazione suicidaria implicita; cioè sarebbero associate, e quindi candidate quali biomarker, a processi non coscienti (impliciti) che spingerebbero al suicidio. La stima di connettività tra la corteccia visiva primaria, l’insula anteriore e l’amigdala potrebbe individuare pazienti soggetti a crisi suicidarie, e consentire di prevenirle.

Un altro studio, condotto da Zhou e colleghi, ha segnalato un possibile contrassegno diagnostico in fluttuazioni elettriche di bassa frequenza associate ai sintomi depressivi del disturbo bipolare II.

Zhang e colleghi hanno realizzato un lavoro particolarmente interessante, perché condotto solo su pazienti al primo episodio di disturbo depressivo maggiore (MDD) che non avevano mai assunto farmaci, rilevando come possibile contrassegno diagnostico la riduzione volumetrica della materia grigia nelle regioni fronto-limbico-striatali, inclusa la corteccia prefrontale, il sistema limbico, lo striato, il cervelletto, il lobo temporale e il giro della lingula bilateralmente.

Le proposte di biomarker degli altri studi della raccolta monografica sono meno convincenti. In ogni caso, tutti i contrassegni individuati richiedono conferme su grandi numeri e, considerati i problemi di variabilità individuale cui ho fatto riferimento in precedenza, dovranno essere introdotti con prudenza nella pratica diagnostica e inclusi in un quadro generale di valutazione centrato sul rapporto col paziente, e non utilizzati come un biomarker tumorale o un indice ematochimico di malattia, rischiando di attribuire loro un valore assoluto che fino ad oggi non è stato ancora provato.

 

L’autrice della nota ringrazia per la collaborazione i professori Giuseppe Perrella, Giovanni Rossi, Ludovica R. Poggi e Diane Richmond, e invita alla lettura di recensioni e altri scritti di argomento connesso (oltre un centinaio) che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-20 novembre 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] A Ippocrate di Coo (Kos), vissuto tra il 460 e il 370 a.C., si attribuiscono una sessantina di opere, verosimilmente redatte in gran parte da membri della sua celebre scuola, costituenti il nucleo del Corpus Hippocraticum o Collezione ippocratica, che oggi include oltre settanta manoscritti. Le denominazioni abbreviate dei manoscritti sono quelle seguite da Vincenzo Di Benedetto (v. dopo) e adottate dagli specialisti.

[2] In altri manoscritti (Nat. hom.) si parla di sangue, flegma, bile gialla, bile nera.

[3] Vincenzo Di Benedetto, Il medico e la malattia, p. 59, Einaudi, Torino 1986.

[4] Vincenzo Di Benedetto, op. cit., p. 51. Il frammento è di Diocle di Caristo (circa 360 a.C.).

[5] Henri Ey, P. Bernard e Ch. Brisset, Manuale di Psichiatria, p. 262, Masson Italia Editori, Milano 1983.

[6] In passato esistevano varie classificazioni cliniche parallele, che riflettevano criteri e prospettive interpretative differenti. In alcune scuole di psichiatria italiane si chiedeva agli psichiatri di inquadrare un paziente depresso secondo i criteri di almeno tre di queste classificazioni cliniche. L’uso della Scala di Hamilton per la valutazione diagnostica della depressione era limitato solo agli usi di comunicazione scientifica, non trovando il suo esito riscontro diretto nelle strategie terapeutiche da adottare. Tra le distinzioni classiche vi era quella tra depressione endogena (o depressione maggiore) e depressione reattiva (o depressione minore), tra depressione nevrotica e depressione psicotica, tra depressione lieve (spontaneamente reversibile), depressione di media entità (perdurante, che regredisce se trattata) e depressione grave, che costituiva un’espressione ambigua perché riferita tanto alla gravità della depressione psicotica delirante quanto allo stato di grave apatia negativista resistente al trattamento di pazienti depressi non psicotici.

[7] Si fa riferimento all’occipital bending o curvatura della scissura interemisferica al livello dei lobi occipitali, a causa di un lobo più grande che in alcuni casi avvolge quasi il lobo più piccolo; in massima parte presente nelle donne, l’anomalia è associata allo sviluppo di depressione. Si raccomanda la lettura dell’aggiornamento di Giovanni Rossi dal titolo “Scoperte e aggiornamenti sulle basi neurali della depressione” (Note e Notizie 11-04-15 Scoperte e aggiornamenti sulle basi neurali della depressione) nel quale, oltre a una trattazione esaustiva dell’occipital bending, si presentano nozioni e nuove acquisizioni della ricerca sulla depressione attualissime e ancora ignorate dalla maggior parte degli psichiatri. Inoltre, si discute anche la base biologica del pessimismo depressivo individuata di recente.

[8] Tristezza vitale, basso tono dell’umore, deficit di espressione di affetti espansivi, anedonia, rallentamento ideo-motorio, ideazione pessimistica, mancanza di iniziativa, inibizione, ecc.

[9] Cfr. Giuseppe Perrella, Il disturbo post-traumatico da stress (PTSD), Dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli 2005.

[10] Chien-Han Lai, Yong Ku Kim & Joaquim Rada, Neuroimaging Biomarkers in Mood and Anxiety Disorders. Frontiers in Psychiatry – Epub ahead of print doi: 10.3389/fpsyt.2021.773034, 2021.

[11] Di questo studio non abbiamo tenuto conto, perché la ECT non ha basi scientifiche e il razionale del suo impiego è empirico e originato dalla pratica antiscientifica dell’elettroshock: la nostra società scientifica, così come tante altre scuole di neuroscienze e psichiatria, contesta il principio di causare un danno (sia pure limitato) per ottenere un effetto positivo incerto con un meccanismo ignoto. Su questo principio si basavano le barbare prescrizioni ai pazienti psichiatrici di coma insulinico ed elettroshock del secolo scorso. Si legge che il neuroscienziato Steven Rose già negli anni Settanta condannava e denunciava queste pratiche improponibili nell’epoca della medicina scientifica.